Congiura Querini - Tiepolo |
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Il
contesto storico e sociale. Varie sono le opinioni sull’origine
della congiura e sul suo vero scopo. In modo molto schematico, tra la fine
del Duecento
e gli inizi del Trecento, si agitava a Venezia una lotta tra
le famiglie nobiliari. Di qua stava la fazione
“aristocratica”, capeggiata dalle dodici Casate dette “apostoliche” unite ad
altre antiche famiglie ducali che tentava di accentrare e limitare per sé il
potere politico. Nell’altro campo gli esponenti
della fazione "popolare", guidata dai Casati dei Querini, dei Tiepolo e dei Badoer
che appoggiavano, contro gli interessi del resto della classe patrizia, le
istanze delle famiglie “arricchite”, divenute loro bacino di potere e
clientela che, dopo aver sostenuto i nobili nella presa del potere contro il
vecchio sistema monarchico-ducale, si vedevano ora costrette a cederlo
nuovamente ai vecchi "proprietari". In questo contesto, alcuni
cronisti considerano la congiura la conseguenza della promulgazione della
legge detta “Serrata del Mazor Consejo” attuata dal Dose Piero
Gradenigo nel 1297, che di fatto aveva
avviato il processo di esclusione di nuove famiglie dal Governo della
Repubblica; altri invece l’attribuiscono a motivi di forte inimicizia di una
parte della nobiltà verso il Dose; altri
ancora alla smodata ambizione politica di Bajamonte
Tiepolo, già figlio e nipote di Dose,
ed ai suoi disegni di rovesciare il governo repubblicano per costituirsi
nuovo principe di Venezia. Fra tutti, era in quel tempo il
Casato dei Querini
il più fortemente avverso al Dose Gradenigo, poiché nel 1289 era sfumata di un
soffio l'elezione a Dose
di Jacopo Tiepolo,
loro parente, fortemente acclamato dalla popolazione, in favore appunto di Pietro Gradenigo, il capo del partito aristocratico.
Il capofila del Casato, Jacopo Querini, sosteneva una politica di parte Guelfa,
quindi favorevole alla Chiesa, rinfacciando continuamente al Dose Gradenigo ed ai suoi affiliati, di parte
Ghibellina, il danno da essi causato alla Patria con la guerra di Ferrara, fortemente
voluta dagli aristocratici per il possesso della città
estense
ed il controllo sul Po
e sulle saline
di Comacchio,
impresa sfortunata che costò alla Repubblica lo scontro con il Pontefice, la scomunica
ed un alto prezzo in vite umane. Per contro, al termine di quella
guerra, il Dose e la sua fazione
addossarono tutta la responsabilità della sconfitta ad uno dei principali
esponenti del partito avversario, Marco Querini,
che fu velatamente accusato di viltà per aver permesso al nemico
d'impossessarsi, adombrando addirittura il dolo, della fortezza chiave di Castel Tedaldo, causando la morte di numerosi
veneziani e, in definitiva, la perdita della guerra. Non procedendo però i magistrati
contro il Querini, a cagione dell’illustre Casato,
né contro la calunnia di tradimento che gli era stata rivolta, si lasciava
campo libero al rancore che cresceva e degenerava spesso in continue dispute
ed alterchi, con pesanti tensioni ed effetti che coinvolgevano anche i lavori
del Mazor Consejo, in
cui ogni più piccolo motivo era bastante a far nascere tumulti e dove in
molti cominciavano a paventare l’inevitabilità della guerra civile. Nel frattempo, accompagnato dal
chiacchierato Marco Querini,
tornava in Patria dalla guerra di Ferrara il Conte
Doimo di Veglia il quale, venendo lodato per
il suo servizio, fu proposto ed eletto alla carica di Consigliere Ducale. Grande scalpore sollevò la parte
avversaria e Jacopo Querini,
mosso anche dall’onta per l’esclusione di Marco,
dimostrò che l’elezione era contraria alla legge, poiché i Conti di Dalmazia
non potevano essere se non del Mazor Consejo o del Senato.
Al Querini rispose Ugolino
Giustinian, cognato del Conte, e al Giustinian replicò Badoero Badoer, a sua volta parente del Querini. Non avendo
armi, i due partiti strepitarono e batterono a lungo i pugni sui banchi ma
infine il Doimo restò “provato” (approvato). Quale
strascico, nei giorni seguenti si azzuffarono pubblicamente alcuni dei Dandolo contro altri dei Tiepolo e nello scontro restò ferito Jacopo
Tiepolo detto “Scopulo”
(da un’isola di sua proprietà nell’Arcipelago del mar Egeo). Immediatamente i Signori de Note ebbero ordine dalla Signoria di rafforzare la vigilanza
sull’assoluto divieto di portare armi in città, e per l’appunto Marco Morosini, Signor de Note, volle accertarsi se in
casa di Piero Querini
“della Ca’ Granda”, fratello di Marco Querini, vi
fossero tenute armi. Il Querini rifiutò di far
entrare il Morosini, spingendolo a terra e per
questo subendo immediatamente il giorno seguente condanna e pena da parte
della Quarantia. A questioni pubbliche si sommavano
poi anche dissapori privati. Piero Querini detto “Pizzagallo” portava rancore a Marco Dandolo di San Moisè,
Avogador de Comun, per essere stato da questi
condannato a pagare un’ammenda quando, Bailo a Negroponte, non era
intervenuto in una violenza fatta al figlio di quello, Nicolò da un suddito
ebreo. In altra occasione Bajamonte Tiepolo, nipote di Jacopo Dose di gloriosa memoria e figlio di Lorenzo anch’esso Dose, venne condannato il 15 luglio
1300 a restituire una somma di denaro, prelevata abusivamente oltre al suo
stipendio, mentre egli sosteneva l’incarico di Castellano nelle piazzeforti di Modone
e Corone, e che solo per grazia aveva ottenuto di poterla pagare in tre anni.
Nonostante ciò, nel 1302 il Tiepolo venne eletto nella Quarantia, ma egli invece
preferì ritirarsi sdegnato nella sua villa di Marocco, là dimorando e
rifiutandosi di partecipare alla vita pubblica. La
congiura. Tale era, al principio del 1310,
il dissapore ed il rancore fra le opposte fazioni politiche che a molti ormai
pareva che alla rivolta, sostenuta dall’irritazione di una parte del popolo fomentata
ad arte dallo sdegno della frazione minoritaria della nobiltà, mancasse ormai
solamente un capo. L’iniziativa fu assunta da Marco Querini,
reputandosi benemerito della Patria per aver dissuasa la guerra contro il
pontefice Clemente V, ancora fremente di sdegno per essere stato tacciato di
tradimento nella vicenda della perdita di Castel Tedaldo ed irato per essergli stato contrapposto e scelto
il Conte Doimo nella carica di Consigliere Ducale. Egli radunò i suoi per spiegare che, inutile
ogni via di riforma, era ormai necessario eliminare il Dose Gradenigo,
autore della legge sulla Serrata,
sostenitore della rovinosa guerra di Ferrara e responsabile della scomunica
papale che tanto danno aveva causato ai commerci e ai patrimoni dei veneziani
residenti all’estero ed detestato dal popolo che, potendolo, gli avrebbe
preferito Jacopo Tiepolo. Sapendosi però egli stesso a sua
volta odiato dal popolo per via dell’accusa di aver abbandonato Castel Tedaldo al papa, pensò
di far rientrare in città Bajamonte Tiepolo, suo genero, che i veneziani amavano,
chiamandolo Gran Cavaliere. In una
seconda adunanza Marco Querini
con maggior vigore ripropose, questa volta spalleggiato anche dal Tiepolo, la destituzione del Dose Gradenigo e l’elezione di un nuovo
Principe che fosse accettato da tutta la nobiltà ed amato dal popolo. Mentre
la numerosa assemblea formata da nobilomeni, cittadini, popolani, preti e forestieri
animatamente discuteva, prese la parola Jacopo Querini, che era stato appena nominato ad
un’ambasciata a Costantinopoli. Egli usò belle parole per dissuadere i
congiurati, ricordando in particolare la volubile natura del popolo al quale,
si diceva, doveva essere riposto il potere. Nessuno dei presenti replicò alle
quelle savie parole, preferendo invece gli astanti attendere la sua partenza
per Costantinopoli, mentre segretamente si procedette a preparare ogni cosa. Il
piano. Fu convenuto che nel corso della notte
del 14 giugno una parte dei congiurati si sarebbe radunata a Ca’ Querini in Contrada San Mattio ed una parte a Ca’ Tiepolo in Contrada
Sant’Agostin, poi sul fare dell’alba del giorno seguente, si sarebbero
congiunti a Rialto per formare due colonne armate con destinazione Piazza San Marco.
La prima l’avrebbe guidata Marco Querini assieme
ai figli Nicolò e Benedetto,
e sarebbe passata per il ponte del Lovo,
poi calle
dei Fravi ed infine superando il ponte del Malpasso
(oggi dei
Dai). L’altra colonna, condotta da Bajamonte Tiepolo, avrebbe percorso tutta la Marzaria. Badoero Badoer sarebbe intanto partito subito
per Peraga, vicino a Padova, dove la sua casata
possedeva villa e terreni, per raccogliere genti armate con cui muovere poi
verso Venezia. La
rivolta. Imprevisto, la notte del 14 giugno
scoppiò improvviso un violento temporale, con tuoni, lampi e pioggia forte ed
insistente. Il tempo inclemente favorì però i
movimenti dei congiurati che, come stabilito, all’alba del giorno 15 uscirono
dalle Ca’ patrizie e si radunano gridando “libertà” e “morte al Dose Gradenigo” mentre si formavano le due colonne sotto una
pioggia incessante, il forte vento ed il cupo rombare dei tuoni. Non avendo nemmeno oltrepassato il
ponte di Rialto,
i congiurati però si attardavano fatalmente ad assaltare gli uffici dei Cinque Anziani alla Pace, bruciandone
le scritture, e poi quello del magistrato
al Formento per impossessarsi della cassa. A Peraga
intanto, Badoero Badoer, aveva radunato ed armato la sua Corte e
le sue genti ma a causa della bufera che imperversava faticava alquanto ad
imbarcare i villici e a muovere lungo il Brenta verso Venezia. Nel frattempo, a palazzo ducale
faceva ingresso Marco Donà
della Contrada de la Madalena, dapprima entrato nella congiura
ma tosto uscitone, che chiedeva di incontrare immediatamente il Dose Gradenigo
al quale confermava che una rivolta armata era in corso. Di forte e fiero temperamento, il Dose fece immediatamente radunare
tutte le guardie a palazzo, spedì dispacci ai podestà di Chioggia, Murano e Torcello perché accorressero con genti armate, fece
chiamare e raccolse attorno a sé quanti più potè
del suo partito, ordinando a tutti di armare segretamente i propri servitori,
allarmò i fedeli arsenalotti. Non appena le vedette diedero avviso
dell’approssimarsi dei congiurati, il Dose
si armò anch’esso e scese in piazza dove, assieme a numerosi armati,
l’attendeva Marco Giustinian
della Contrada San Moisè ed una folta rappresentanza del
Casato dei Dandolo. La
battaglia. Ignaro di ciò che l’attendeva, Marco Querini
oltrepassato il sotoportego dei Dai irrompe
baldanzoso in piazza, dove però si trova immediatamente assalito dalle genti
del Giustinian.
Colti di sorpresa, le fila dei ribelli sbandano e vengono incalzati e
sospinti nuovamente verso il ponte dei Dai. Nello scontro molti
dei ribelli rimangono a terra uccisi e tra i morti si contano anche lo stesso
Marco Querini ed
il figlio Benedetto. In
ritardo,
Bajamonte Tiepolo intanto avanzava lungo la Marzaria
ed arrivato in campo
San Zulian, dove al tempo stava un
albero di sambuco, fece una sosta suddividendo la sua colonna in due
tronconi: uno, il più consistente e da lui guidato, sarebbe entrato in piazza
dalla Marzaria e l’altro invece
percorrendo la parallela Spadaria e poi calle San Basso.
Quando il troncone più numeroso arriva alla fine della Marzaria,
si accende un furioso combattimento con le truppe lealiste, galvanizzate
dalla distruzione della colonna del defunto Marco
Querini. Bloccato il passo verso la piazza i
congiurati sono intrappolati nella stretta calle, mentre i veneziani affacciati
alle finestre gridano contro i traditori, gettando in calle pietre e
masserizie, finché una donna getta un mortaio che colpisce al capo ed uccide
l’alfiere di Bajamonte Tiepolo. Cade la bandiera, sbandano le fila dei
congiurati che hanno appreso la morte di Marco Querini e sospinti dai lealisti essi
indietreggiano ripercorrendo tutto il tragitto al contrario finchè, passato il ponte di Rialto, all’epoca mobile ed
ancora in legno, lo tagliano impedendo il transito agli inseguitori. Così facendo, restavano da questa
parte gli sbandati della colonna di Marco Querini, che risalita la calle combattendo,
arrivano in campo
San Luca dove però vengono violentemente attaccati alle spalle
dai confratelli della Schola Granda de la Carità che sono accorsi uniti ai membri
dell’Arte dei Depentori e da questi definitivamente
dispersi. Qui la rivolta può dirsi domata ma
dall’altra parte del Canalasso,
Bajamonte Tiepolo ha ancora a disposizione un formidabile
gruppo di armati ed è ben asserragliato con abbondanti vettovaglie in attesa
che Badoero Badoer arrivi con i suoi gregari a ribaltare le
sorti della rivolta. Il Dose Gradenigo considera il pericolo imminente ed ordina al
podestà di Chioggia, Ugolino Giustinian,
di muovere subito contro il Badoer che
viene intercettato proprio mentre, ritardato dalle barche incagliate sulle
secche del Brenta, egli è appena arrivato a Fusina
e qui, ingaggiato e sconfittolo, lo fa prigioniero con tutti i suoi. Intanto in città il Dose Gradenigo, cercando di rinforzare le proprie
schiere e di far diminuire quelle dell’avversario, fa pubblicare d’urgenza un
decreto in cui si promette amnistia e perdono agl’insorti che avessero
nuovamente giurato obbedienza. Egli però comprende che Venezia è sconvolta,
il popolo sbigottito assiste alla lotta fratricida dei patrizi e non prende
partito attendendo il vincitore; i rinforzi richiesti ai Podestà sono
arrivati da Torcello e da Chioggia ma non però da
Murano, che non manderà nessuno. La
mediazione. E’ chiaro che Bajamonte
Tiepolo non si arrenderà mai senza combattere; mentre agli ordini di Antolin Dandolo e Baoldovino
Dolfin si organizzano le truppe per
l’attacco finale contro i ribelli, la Signoria accetta che alcuni mercanti
milanesi, offertisi come mediatori, incontrino Bajamonte
Tiepolo il quale però, con grande superbia, rigetta la delegazione. Il
Dose insiste nel cercare un
componimento e questa volta invia Giovanni Soranzo,
poi anch’egli Dose, assieme a
Matteo Manolesso con la promessa a Bajamonte di poter lasciare incolume Venezia, ma ancora
egli respinge con sdegno l’ambasciata ribattendo di aver molti torti da
vendicare. Passa una notte di veglia e la mattina del 16 Filippo Belegno, Consigliere Ducale, ottenendo prima
ampia libertà di manovra, chiede di poter fare un ultimo tentativo prima che
parlino le armi e, grazie alla forza della sua eloquenza, riesce a convincere
Bajamonte Tiepolo ad accettare un patto. L’accordo.
La Scrittura si compone di tre
Capitoli, ed il prologo è eloquente quanto non mai della situazione precaria
e del realismo politico che l’accompagna: i provvedimenti contro Bajamonte Tiepolo e i suoi seguaci vengono ordinati non
già perché nemici della Patria ma perché essi avevano “troppo ecceduto”. Il primo Capitolo, che riguarda la
persona di Bajamonte, lo stende egli stesso a suo
piacimento, scegliendo di porsi al confino in Dalmazia, oltre Zara, per
quattro anni. Il secondo Capitolo riguarda i
“partecipi all’eccesso” ossia i nobilomeni che lo avevano seguito, per ciascuno dei quali
sarà il Dose Gradenigo a stabilire le località di
confino ed anch’essi per un periodo non superiore ai quattro anni. Il terzo Capitolo riguarda gli
altri seguaci, i cittadini, i popolani e i forestieri, le cui sorti venivano
lasciate alla clemenza della Signoria. Il Dose acconsentì immediatamente alle richieste, preoccupato
solamente di vedere uscire i suoi nemici da Venezia il prima possibile; solo
fece aggiungere che qualora i confinati si fossero allontanati dalla zona di
residenza loro assegnata, sarebbero stati trattati come traditori. Il mattino seguente, il 17 giugno
1310 il Mazor Consejo
radunato in 377 nobilomeni dei 900 che lo
componevano, approvava la Scrittura con 361 voti “de Parte”, 6 voti “de Non”e
10 voti “dubii o non sinceri”. Viene notato il
basso numero dei partecipanti al voto, e ciò dava ulteriore motivo alla Signoria di ritenere che assai
maggiore fosse il numero dei suoi nemici occulti. L’esilio
e gli ultimi anni. Bajamonte Tiepolo e i congiurati lasciavano la
città e giunti a Mestre venivano loro comunicate le città del confino. Nonostante la proibizione del
Governo però, Bajamonte,
desideroso di ritornare a Venezia, il Venerdì
Santo 16 aprile 1311, rientrava dal
confino ed entrò a Padova, dove si riunì assieme ad esponenti della famiglia
Scrovegni, dei Carraresi, di altre nobili famiglie e gli
ambasciatori dei Da Camino, per esporre la posizione propria e
degli altri fuoriusciti veneziani ma uscendone alfine solo con vaghe promesse
di sostegno e di uomini. Rimasto a Padova, appena quattro mesi egli venne
raggiunto dalla notizia della morte del Dose
Gradenigo,
avvenuta il 13 agosto.
Gli successero brevemente Marino Zorzi e poi,
nel 1312,
Giovanni Soranzo. Spostatosi successivamente a
Treviso, ma privo dei sostegni promessi, isolato in Terraferma ed inviso alla
popolazione veneziana per la sua collusione coi nemici della Repubblica, nel febbraio
1318,
dopo estenuanti trattative e crescenti pressioni, la Signoria guidata dal Dose
Giovanni Soranzo ottenne che Bajamonte
Tiepolo fosse espulso dal comune trevigiano, mentre in patria l'esilio
veniva reso per lui perpetuo. Questi si recò dunque in Istria,
dove la famiglia aveva numerosi possedimenti. Restando sempre ben vigile, nel 1320 la Repubblica
catturò uno dei fuoriusciti, Nicolò Querini,
il quale venne giustiziato a Padova il 17 dicembre
e la cui morte venne poi pubblicamente resa nota con un bando a Rialto,
mentre invece la di lui moglie era costretta a prendere il
velo. Nello stesso periodo Stefano Manolesso,
accusato di aver avuto un incontro clandestino col Tiepolo, fu condannato
alla pena capitale. In quel periodo Bajamonte viaggiava in
Dalmazia,
dove la città di Zara lo aveva chiamato in qualità di arbitro
per dirimere le questioni vertenti con Maladino,
Bano di Croazia. La Serenissima, però, che
formalmente era signora di Zara, dichiarò nel 1321 nulle le decisioni
di Bajamonte e
del comune zaratino in quanto contrarie ai trattati
di alleanza, tuttavia la turbolenta città dalmata non se ne curò ed anzi,
incurante delle ambasciate veneziane, il 17 novembre
incaricava Bajamonte
di comporre per Zara un nuovo arbitrato per alcune contese con la Serbia.
Fortemente irritato, il 12 giugno successivo il Consejo dei Diese ordinava al Provedador de
Dalmazia l'arresto immediato di Bajamonte il quale fu costretto perciò a
darsi alla fuga, vagando da una città all'altra. Caduto prigioniero del Voivoda
serbo Giorgio, riuscì ad evadere ed a raggiungere nuovamente Zara, dove gli
ambasciatori del Comune di Bologna gli offrirono di guidare le forze dei Guelfi. Il 16 giugno
1325
il Consejo dei Diese
ordinava ai Conti di Traù, Sebenico e Ragusa
di tenersi in allarme, mentre a Zara e in tutte le città della Schiavonia fu promulgato un editto
che proibiva a tutti qualunque contatto con il traditore. Mentre il 26 dicembre
1328
a Venezia veniva scoperta e repressa una nuova congiura, che portava
all'arresto di numerose persone e, dato l'ennesimo coinvolgimento dei Querini, anche alla cattura dello stesso vecchio Jacopo e all'esilio di Andreolo Querini, il 31 gennaio
1329
il Consejo dei Diese
incaricava Federico Dandolo
di provvedere con qualunque mezzo e a qualunque costo all'eliminazione di Bajamonte Tiepolo. Da questo momento, di lui non si
seppe più nulla, se non che morì pochi mesi dopo, presso alcuni suoi parenti,
in località Rapia, in Croazia,
nel 1328. La
repressione. ·
Badoero Badoer, condotto alle carceri, fu processato il 18 giugno ed il
22 seguente, rilette secondo l’uso le carte del processo, fu confermata la
sua condanna al taglio della testa, sentenza che venne eseguita
immediatamente. Il 23 la Quarantia processò i suoi seguaci che vennero in parte
decapitati ed in parte impiccati. ·
Il
giorno 2 luglio il Mazor Consejo
decretava che tutti i forestieri che avessero intrattenuto relazione con i
ribelli si presentassero spontaneamente entro otto giorni davanti ai Signori de Note per rendere conto di
sé. ·
Con
altro decreto si ordinava altresì che nessun cittadino potesse ricevere in
casa i banditi o mantenere contatti con gli stessi e che le mogli dei
congiurati lasciassero anch’esse la città. Così Caterina, moglie di Nicolò Querini detto
“Durante”, che seguì il marito in esilio e solo dopo la morte di lui potè rientrare in Patria ma venendo rinchiusa in un
monastero dal quale ne uscì solo sposando in seconde nozze un nobilomo che
non aveva preso parte alla congiura. Essere la figlia del Dose Giovanni
Soranzo non valse miglior sorte a Soranza, moglie del congiurato Nicolò
Querini detto “Zotto”.
Trascorsi i quattro anni al confino, Soranza,
confidando nell’autorità del Dose
suo padre, rientrò a Venezia contro il volere della Repubblica ed il 28
giugno 1314 venne condannata a restare perpetuamente chiusa nel convento di
clausura di Santa Maria delle Vergini in Contrada
San Piero de Castelo. Rimasta vedova, qualche volta le
fu concesso di recare visita al vecchio padre ed anche di passeggiare nel
cortile del monastero. Non ottenne mai la libertà e morì nel 1349 dopo quasi
venticinque anni di prigionia. ·
Il
10 luglio 1310 fu proposta ed approvata in Mazor Consejo l’istituzione di un tribunale speciale che
vigilasse sulla sicurezza interna della Repubblica. Era l’atto di nascita del
Consejo dei X, che dopo alcune proroghe atte
a verificarne l’effettiva utilità, venne dichiarato di stabile rielezione il
20 luglio 1335. ·
Il
25 luglio 1310 veniva ordinata la demolizione di Ca’
Tiepolo di Bajamonte in Contrada Sant’Agostin con divieto di qualunque
ricostruzione. I pilastri di marmo rosa del portone d’ingresso furono donati
alla chiesa di San Vio, che li adoperò per la
propria porta. ·
Fu
ugualmente decretata anche la demolizione di due terzi di Ca’ Querini in Contrada San Mattio a Rialto, proprietà dei congiurati
Marco e Piero, salvando però la parte di Giovanni Querini,
riconoscendo che egli non aveva partecipato alla congiura. Essendo però
insorte difficoltà circa la determinazione esatta dei confini, la proprietà
di Giovanni venne acquistata dalla Signoria
e tutto l’edificio convertito a stalla e macello pubblico. ·
Nel
dicembre del 1310 fu ordinato che tutti gli stemmi di Ca’ Tiepolo e di Ca’ Querini fossero scalpellati e che le casate
“lealiste” dovessero mutarli. Lo stemma dei Querini
che era dapprima a quartieri d’oro e rossi, fu ridotto in due parti per la
larghezza, mettendo nella superiore tre stelle d’oro in campo azzurro e la
inferiore tutta rossa, nella quale però i membri del casato che non
parteciparono alla congiura supplicarono l’inserimento di una B bianca a significare che essi erano
rimasti sempre buoni e fedeli. Lo stemma dei Tiepolo che era un castello
d’argento con due torri in campo azzurro, fu cambiato con altro in cui si
vedeva un corno di capra. Non solo in tutti i luoghi privati furono cambiate
le insegne ma anche in sala del Mazor Consejo venne mutata l’immagine del blasone nei
ritratti dei Dosi Giacomo e Lorenzo
Tiepolo, così come quelli scolpiti nelle loro sepolture in chiesa di San Zanipolo. La
memoria. ·
Il
28 giugno 1310 fu decretato festivo il giorno di San Vito (15 giugno), con
“Andata” del Dose da palazzo ducale
fino alla chiesa parrocchiale di San Vio. ·
Marco Donà fu dichiarato, con tutta la sua
discendenza, perpetuamente del Mazor Consejo. ·
Giustina
o Lucia Rossi, la donna che aveva fatto cadere il mortaio sulla testa
dell’alfiere di Bajamonte Tiepolo, fu accolta a palazzo ducale dal Dose il quale fece concessione alla
donna di particolari privilegi. ·
Speciali
onori furono decretati al Guardian Grando della Schola Granda de la Carità, ordinando che in campo San Luca
fosse alzata un’antenna dove sventolassero assieme le insegne di quella
Scuola e dell’Arte dei Depentori. ·
Al
centro dell’area resa sgombra dalla demolizione di Ca’ Tiepolo in Contrada Sant’Agostin, venne collocata una colonna
d’infamia. |