Congiura

Querini - Tiepolo

La cronaca della Congiura Querini-Tiepolo.

 

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Il contesto storico e sociale.


Varie sono le opinioni sull’origine della congiura e sul suo vero scopo. In modo molto schematico, tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, si agitava a Venezia una lotta tra le famiglie nobiliari.

Di qua stava la fazione “aristocratica”, capeggiata dalle dodici Casate dette “apostoliche” unite ad altre antiche famiglie ducali che tentava di accentrare e limitare per sé il potere politico.

Nell’altro campo gli esponenti della fazione "popolare", guidata dai Casati dei Querini, dei Tiepolo e dei Badoer che appoggiavano, contro gli interessi del resto della classe patrizia, le istanze delle famiglie “arricchite”, divenute loro bacino di potere e clientela che, dopo aver sostenuto i nobili nella presa del potere contro il vecchio sistema monarchico-ducale, si vedevano ora costrette a cederlo nuovamente ai vecchi "proprietari".

In questo contesto, alcuni cronisti considerano la congiura la conseguenza della promulgazione della legge detta “Serrata del Mazor Consejo” attuata dal Dose Piero Gradenigo nel 1297, che di fatto aveva avviato il processo di esclusione di nuove famiglie dal Governo della Repubblica; altri invece l’attribuiscono a motivi di forte inimicizia di una parte della nobiltà verso il Dose; altri ancora alla smodata ambizione politica di Bajamonte Tiepolo, già figlio e nipote di Dose, ed ai suoi disegni di rovesciare il governo repubblicano per costituirsi nuovo principe di Venezia.

Fra tutti, era in quel tempo il Casato dei Querini il più fortemente avverso al Dose Gradenigo,  poiché nel 1289 era sfumata di un soffio l'elezione a Dose di Jacopo Tiepolo, loro parente, fortemente acclamato dalla popolazione, in favore appunto di Pietro Gradenigo, il capo del partito aristocratico. Il capofila del Casato, Jacopo Querini, sosteneva una politica di parte Guelfa, quindi favorevole alla Chiesa, rinfacciando continuamente al Dose Gradenigo ed ai suoi affiliati, di parte Ghibellina, il danno da essi causato alla Patria con la guerra di Ferrara, fortemente voluta dagli aristocratici per il possesso della città estense ed il controllo sul Po e sulle saline di Comacchio, impresa sfortunata che costò alla Repubblica lo scontro con il Pontefice, la scomunica ed un alto prezzo in vite umane.

Per contro, al termine di quella guerra, il Dose e la sua fazione addossarono tutta la responsabilità della sconfitta ad uno dei principali esponenti del partito avversario, Marco Querini, che fu velatamente accusato di viltà per aver permesso al nemico d'impossessarsi, adombrando addirittura il dolo, della fortezza chiave di Castel Tedaldo, causando la morte di numerosi veneziani e, in definitiva, la perdita della guerra.

Non procedendo però i magistrati contro il Querini, a cagione dell’illustre Casato, né contro la calunnia di tradimento che gli era stata rivolta, si lasciava campo libero al rancore che cresceva e degenerava spesso in continue dispute ed alterchi, con pesanti tensioni ed effetti che coinvolgevano anche i lavori del Mazor Consejo, in cui ogni più piccolo motivo era bastante a far nascere tumulti e dove in molti cominciavano a paventare l’inevitabilità della guerra civile.

Nel frattempo, accompagnato dal chiacchierato Marco Querini, tornava in Patria dalla guerra di Ferrara il Conte Doimo di Veglia il quale, venendo lodato per il suo servizio, fu proposto ed eletto alla carica di Consigliere Ducale.

Grande scalpore sollevò la parte avversaria e Jacopo Querini, mosso anche dall’onta per l’esclusione di Marco, dimostrò che l’elezione era contraria alla legge, poiché i Conti di Dalmazia non potevano essere se non del Mazor Consejo o del Senato. Al Querini rispose Ugolino Giustinian, cognato del Conte, e al Giustinian replicò Badoero Badoer, a sua volta parente del Querini. Non avendo armi, i due partiti strepitarono e batterono a lungo i pugni sui banchi ma infine il Doimo restò “provato” (approvato). Quale strascico, nei giorni seguenti si azzuffarono pubblicamente alcuni dei Dandolo contro altri dei Tiepolo e nello scontro restò ferito Jacopo Tiepolo detto “Scopulo (da un’isola di sua proprietà nell’Arcipelago del mar Egeo).

Immediatamente i Signori de Note ebbero ordine dalla Signoria di rafforzare la vigilanza sull’assoluto divieto di portare armi in città, e per l’appunto Marco Morosini, Signor de Note, volle accertarsi se in casa di Piero Querini “della Ca’ Granda, fratello di Marco Querini, vi fossero tenute armi. Il Querini rifiutò di far entrare il Morosini, spingendolo a terra e per questo subendo immediatamente il giorno seguente condanna e pena da parte della Quarantia.

A questioni pubbliche si sommavano poi anche dissapori privati.

Piero Querini detto “Pizzagallo portava rancore a Marco Dandolo di San Moisè, Avogador de Comun, per essere stato da questi condannato a pagare un’ammenda quando, Bailo a Negroponte, non era intervenuto in una violenza fatta al figlio di quello, Nicolò da un suddito ebreo.

In altra occasione Bajamonte Tiepolo, nipote di Jacopo Dose di gloriosa memoria e figlio di Lorenzo anch’esso Dose, venne condannato il 15 luglio 1300 a restituire una somma di denaro, prelevata abusivamente oltre al suo stipendio, mentre egli sosteneva l’incarico di Castellano nelle piazzeforti di Modone e Corone, e che solo per grazia aveva ottenuto di poterla pagare in tre anni. Nonostante ciò, nel 1302 il Tiepolo venne eletto nella Quarantia, ma egli invece preferì ritirarsi sdegnato nella sua villa di Marocco, là dimorando e rifiutandosi di partecipare alla vita pubblica.

 

La congiura.


Tale era, al principio del 1310, il dissapore ed il rancore fra le opposte fazioni politiche che a molti ormai pareva che alla rivolta, sostenuta dall’irritazione di una parte del popolo fomentata ad arte dallo sdegno della frazione minoritaria della nobiltà, mancasse ormai solamente un capo.

L’iniziativa fu assunta da Marco Querini, reputandosi benemerito della Patria per aver dissuasa la guerra contro il pontefice Clemente V, ancora fremente di sdegno per essere stato tacciato di tradimento nella vicenda della perdita di Castel Tedaldo ed irato per essergli stato contrapposto e scelto il Conte Doimo nella carica di Consigliere Ducale. Egli radunò i suoi per spiegare che, inutile ogni via di riforma, era ormai necessario eliminare il Dose Gradenigo, autore della legge sulla Serrata, sostenitore della rovinosa guerra di Ferrara e responsabile della scomunica papale che tanto danno aveva causato ai commerci e ai patrimoni dei veneziani residenti all’estero ed detestato dal popolo che, potendolo, gli avrebbe preferito Jacopo Tiepolo.

Sapendosi però egli stesso a sua volta odiato dal popolo per via dell’accusa di aver abbandonato Castel Tedaldo al papa, pensò di far rientrare in città Bajamonte Tiepolo, suo genero, che i veneziani amavano, chiamandolo Gran Cavaliere. In una seconda adunanza Marco Querini con maggior vigore ripropose, questa volta spalleggiato anche dal Tiepolo, la destituzione del Dose Gradenigo e l’elezione di un nuovo Principe che fosse accettato da tutta la nobiltà ed amato dal popolo. Mentre la numerosa assemblea formata da nobilomeni, cittadini, popolani, preti e forestieri animatamente discuteva, prese la parola Jacopo Querini, che era stato appena nominato ad un’ambasciata a Costantinopoli. Egli usò belle parole per dissuadere i congiurati, ricordando in particolare la volubile natura del popolo al quale, si diceva, doveva essere riposto il potere. Nessuno dei presenti replicò alle quelle savie parole, preferendo invece gli astanti attendere la sua partenza per Costantinopoli, mentre segretamente si procedette a preparare ogni cosa.

 

Il piano.


Fu convenuto che nel corso della notte del 14 giugno una parte dei congiurati si sarebbe radunata a Ca’ Querini in Contrada San Mattio ed una parte a Ca’ Tiepolo in Contrada Sant’Agostin, poi sul fare dell’alba del giorno seguente, si sarebbero congiunti a Rialto per formare due colonne armate con destinazione Piazza San Marco.

La prima l’avrebbe guidata Marco Querini assieme ai figli Nicolò e Benedetto, e sarebbe passata per il ponte del Lovo, poi calle dei Fravi ed infine superando il ponte del Malpasso (oggi dei Dai).

L’altra colonna, condotta da Bajamonte Tiepolo, avrebbe percorso tutta la Marzaria.

Badoero Badoer sarebbe intanto partito subito per Peraga, vicino a Padova, dove la sua casata possedeva villa e terreni, per raccogliere genti armate con cui muovere poi verso Venezia.

 

La rivolta.


Imprevisto, la notte del 14 giugno scoppiò improvviso un violento temporale, con tuoni, lampi e pioggia forte ed insistente.

Il tempo inclemente favorì però i movimenti dei congiurati che, come stabilito, all’alba del giorno 15 uscirono dalle Ca’ patrizie e si radunano gridando “libertà” e “morte al Dose Gradenigo” mentre si formavano le due colonne sotto una pioggia incessante, il forte vento ed il cupo rombare dei tuoni.

Non avendo nemmeno oltrepassato il ponte di Rialto, i congiurati però si attardavano fatalmente ad assaltare gli uffici dei Cinque Anziani alla Pace, bruciandone le scritture, e poi quello del magistrato al Formento per impossessarsi della cassa.

A Peraga intanto, Badoero Badoer, aveva radunato ed armato la sua Corte e le sue genti ma a causa della bufera che imperversava faticava alquanto ad imbarcare i villici e a muovere lungo il Brenta verso Venezia.

Nel frattempo, a palazzo ducale faceva ingresso Marco Donà della Contrada de la Madalena, dapprima entrato nella congiura ma tosto uscitone, che chiedeva di incontrare immediatamente il Dose Gradenigo al quale confermava che una rivolta armata era in corso.

Di forte e fiero temperamento, il Dose fece immediatamente radunare tutte le guardie a palazzo, spedì dispacci ai podestà di Chioggia, Murano e Torcello perché accorressero con genti armate, fece chiamare e raccolse attorno a sé quanti più potè del suo partito, ordinando a tutti di armare segretamente i propri servitori, allarmò i fedeli arsenalotti. Non appena le vedette diedero avviso dell’approssimarsi dei congiurati, il Dose si armò anch’esso e scese in piazza dove, assieme a numerosi armati, l’attendeva Marco Giustinian della Contrada San Moisè ed una folta rappresentanza del Casato dei Dandolo.

 

La battaglia.


Ignaro di ciò che l’attendeva, Marco Querini oltrepassato il sotoportego dei Dai irrompe baldanzoso in piazza, dove però si trova immediatamente assalito dalle genti del Giustinian. Colti di sorpresa, le fila dei ribelli sbandano e vengono incalzati e sospinti nuovamente verso il ponte dei Dai. Nello scontro molti dei ribelli rimangono a terra uccisi e tra i morti si contano anche lo stesso Marco Querini ed il figlio Benedetto.      

In ritardo, Bajamonte Tiepolo intanto avanzava lungo la Marzaria ed arrivato in campo San Zulian, dove al tempo stava un albero di sambuco, fece una sosta suddividendo la sua colonna in due tronconi: uno, il più consistente e da lui guidato, sarebbe entrato in piazza dalla Marzaria e l’altro invece percorrendo la parallela Spadaria e poi calle San Basso. Quando il troncone più numeroso arriva alla fine della Marzaria, si accende un furioso combattimento con le truppe lealiste, galvanizzate dalla distruzione della colonna del defunto Marco Querini. Bloccato il passo verso la piazza i congiurati sono intrappolati nella stretta calle, mentre i veneziani affacciati alle finestre gridano contro i traditori, gettando in calle pietre e masserizie, finché una donna getta un mortaio che colpisce al capo ed uccide l’alfiere di Bajamonte Tiepolo. Cade la bandiera, sbandano le fila dei congiurati che hanno appreso la morte di Marco Querini e sospinti dai lealisti essi indietreggiano ripercorrendo tutto il tragitto al contrario finchè, passato il ponte di Rialto, all’epoca mobile ed ancora in legno, lo tagliano impedendo il transito agli inseguitori.

Così facendo, restavano da questa parte gli sbandati della colonna di Marco Querini, che risalita la calle combattendo, arrivano in campo San Luca dove però vengono violentemente attaccati alle spalle dai confratelli della Schola Granda de la Carità che sono accorsi uniti ai membri dell’Arte dei Depentori e da questi definitivamente dispersi.

Qui la rivolta può dirsi domata ma dall’altra parte del Canalasso, Bajamonte Tiepolo ha ancora a disposizione un formidabile gruppo di armati ed è ben asserragliato con abbondanti vettovaglie in attesa che Badoero Badoer arrivi con i suoi gregari a ribaltare le sorti della rivolta. Il Dose Gradenigo considera il pericolo imminente ed ordina al podestà di Chioggia, Ugolino Giustinian, di muovere subito contro il Badoer che viene intercettato proprio mentre, ritardato dalle barche incagliate sulle secche del Brenta, egli è appena arrivato a Fusina e qui, ingaggiato e sconfittolo, lo fa prigioniero con tutti i suoi.

Intanto in città il Dose Gradenigo, cercando di rinforzare le proprie schiere e di far diminuire quelle dell’avversario, fa pubblicare d’urgenza un decreto in cui si promette amnistia e perdono agl’insorti che avessero nuovamente giurato obbedienza. Egli però comprende che Venezia è sconvolta, il popolo sbigottito assiste alla lotta fratricida dei patrizi e non prende partito attendendo il vincitore; i rinforzi richiesti ai Podestà sono arrivati da Torcello e da Chioggia ma non però da Murano, che non manderà nessuno.

 

La mediazione.


E’ chiaro che Bajamonte Tiepolo non si arrenderà mai senza combattere; mentre agli ordini di Antolin Dandolo e Baoldovino Dolfin si organizzano le truppe per l’attacco finale contro i ribelli, la Signoria accetta che alcuni mercanti milanesi, offertisi come mediatori, incontrino Bajamonte Tiepolo il quale però, con grande superbia, rigetta la delegazione. Il Dose insiste nel cercare un componimento e questa volta invia Giovanni Soranzo, poi anch’egli Dose, assieme a Matteo Manolesso con la promessa a Bajamonte di poter lasciare incolume Venezia, ma ancora egli respinge con sdegno l’ambasciata ribattendo di aver molti torti da vendicare. Passa una notte di veglia e la mattina del 16 Filippo Belegno, Consigliere Ducale, ottenendo prima ampia libertà di manovra, chiede di poter fare un ultimo tentativo prima che parlino le armi e, grazie alla forza della sua eloquenza, riesce a convincere Bajamonte Tiepolo ad accettare un patto.

 

L’accordo.


La Scrittura si compone di tre Capitoli, ed il prologo è eloquente quanto non mai della situazione precaria e del realismo politico che l’accompagna: i provvedimenti contro Bajamonte Tiepolo e i suoi seguaci vengono ordinati non già perché nemici della Patria ma perché essi avevano “troppo ecceduto”.

Il primo Capitolo, che riguarda la persona di Bajamonte, lo stende egli stesso a suo piacimento, scegliendo di porsi al confino in Dalmazia, oltre Zara, per quattro anni.

Il secondo Capitolo riguarda i “partecipi all’eccesso” ossia i nobilomeni che lo avevano seguito, per ciascuno dei quali sarà il Dose Gradenigo a stabilire le località di confino ed anch’essi per un periodo non superiore ai quattro anni.

Il terzo Capitolo riguarda gli altri seguaci, i cittadini, i popolani e i forestieri, le cui sorti venivano lasciate alla clemenza della Signoria.

Il Dose acconsentì immediatamente alle richieste, preoccupato solamente di vedere uscire i suoi nemici da Venezia il prima possibile; solo fece aggiungere che qualora i confinati si fossero allontanati dalla zona di residenza loro assegnata, sarebbero stati trattati come traditori.

Il mattino seguente, il 17 giugno 1310 il Mazor Consejo radunato in 377 nobilomeni dei 900 che lo componevano, approvava la Scrittura con 361 voti “de Parte”, 6 voti “de Non”e 10 voti “dubii o non sinceri”. Viene notato il basso numero dei partecipanti al voto, e ciò dava ulteriore motivo alla Signoria di ritenere che assai maggiore fosse il numero dei suoi nemici occulti.

 

L’esilio e gli ultimi anni.


Bajamonte Tiepolo e i congiurati lasciavano la città e giunti a Mestre venivano loro comunicate le città del confino.

Nonostante la proibizione del Governo però, Bajamonte, desideroso di ritornare a Venezia, il Venerdì Santo 16 aprile 1311, rientrava dal confino ed entrò a Padova, dove si riunì assieme ad esponenti della famiglia Scrovegni, dei Carraresi, di altre nobili famiglie e gli ambasciatori dei Da Camino, per esporre la posizione propria e degli altri fuoriusciti veneziani ma uscendone alfine solo con vaghe promesse di sostegno e di uomini. Rimasto a Padova, appena quattro mesi egli venne raggiunto dalla notizia della morte del Dose Gradenigo, avvenuta il 13 agosto. Gli successero brevemente Marino Zorzi e poi, nel 1312, Giovanni Soranzo.

Spostatosi successivamente a Treviso, ma privo dei sostegni promessi, isolato in Terraferma ed inviso alla popolazione veneziana per la sua collusione coi nemici della Repubblica, nel febbraio 1318, dopo estenuanti trattative e crescenti pressioni, la Signoria guidata dal Dose Giovanni Soranzo ottenne che Bajamonte Tiepolo fosse espulso dal comune trevigiano, mentre in patria l'esilio veniva reso per lui perpetuo. Questi si recò dunque in Istria, dove la famiglia aveva numerosi possedimenti.

Restando sempre ben vigile, nel 1320 la Repubblica catturò uno dei fuoriusciti, Nicolò Querini, il quale venne giustiziato a Padova il 17 dicembre e la cui morte venne poi pubblicamente resa nota con un bando a Rialto, mentre invece la di lui moglie era costretta a prendere il velo. Nello stesso periodo Stefano Manolesso, accusato di aver avuto un incontro clandestino col Tiepolo, fu condannato alla pena capitale.

In quel periodo Bajamonte viaggiava in Dalmazia, dove la città di Zara lo aveva chiamato in qualità di arbitro per dirimere le questioni vertenti con Maladino, Bano di Croazia. La Serenissima, però, che formalmente era signora di Zara, dichiarò nel 1321 nulle le decisioni di Bajamonte e del comune zaratino in quanto contrarie ai trattati di alleanza, tuttavia la turbolenta città dalmata non se ne curò ed anzi, incurante delle ambasciate veneziane, il 17 novembre incaricava Bajamonte di comporre per Zara un nuovo arbitrato per alcune contese con la Serbia. Fortemente irritato, il 12 giugno successivo il Consejo dei Diese ordinava al Provedador de Dalmazia l'arresto immediato di Bajamonte il quale fu costretto perciò a darsi alla fuga, vagando da una città all'altra.

Caduto prigioniero del Voivoda serbo Giorgio, riuscì ad evadere ed a raggiungere nuovamente Zara, dove gli ambasciatori del Comune di Bologna gli offrirono di guidare le forze dei Guelfi.

Il 16 giugno 1325 il Consejo dei Diese ordinava ai Conti di Traù, Sebenico e Ragusa di tenersi in allarme, mentre a Zara e in tutte le città della Schiavonia fu promulgato un editto che proibiva a tutti qualunque contatto con il traditore.

Mentre il 26 dicembre 1328 a Venezia veniva scoperta e repressa una nuova congiura, che portava all'arresto di numerose persone e, dato l'ennesimo coinvolgimento dei Querini, anche alla cattura dello stesso vecchio Jacopo e all'esilio di Andreolo Querini, il 31 gennaio 1329 il Consejo dei Diese incaricava Federico Dandolo di provvedere con qualunque mezzo e a qualunque costo all'eliminazione di Bajamonte Tiepolo.

Da questo momento, di lui non si seppe più nulla, se non che morì pochi mesi dopo, presso alcuni suoi parenti, in località Rapia, in Croazia, nel 1328.

 

La repressione.


·         Badoero Badoer, condotto alle carceri, fu processato il 18 giugno ed il 22 seguente, rilette secondo l’uso le carte del processo, fu confermata la sua condanna al taglio della testa, sentenza che venne eseguita immediatamente. Il 23 la Quarantia processò i suoi seguaci che vennero in parte decapitati ed in parte impiccati.

·         Il giorno 2 luglio il Mazor Consejo decretava che tutti i forestieri che avessero intrattenuto relazione con i ribelli si presentassero spontaneamente entro otto giorni davanti ai Signori de Note per rendere conto di sé.

·         Con altro decreto si ordinava altresì che nessun cittadino potesse ricevere in casa i banditi o mantenere contatti con gli stessi e che le mogli dei congiurati lasciassero anch’esse la città. Così Caterina, moglie di Nicolò Querini detto “Durante”, che seguì il marito in esilio e solo dopo la morte di lui potè rientrare in Patria ma venendo rinchiusa in un monastero dal quale ne uscì solo sposando in seconde nozze un nobilomo che non aveva preso parte alla congiura. Essere la figlia del Dose Giovanni Soranzo non valse miglior sorte a Soranza, moglie del congiurato Nicolò Querini detto “Zotto. Trascorsi i quattro anni al confino, Soranza, confidando nell’autorità del Dose suo padre, rientrò a Venezia contro il volere della Repubblica ed il 28 giugno 1314 venne condannata a restare perpetuamente chiusa nel convento di clausura di Santa Maria delle Vergini in Contrada San Piero de Castelo. Rimasta vedova, qualche volta le fu concesso di recare visita al vecchio padre ed anche di passeggiare nel cortile del monastero. Non ottenne mai la libertà e morì nel 1349 dopo quasi venticinque anni di prigionia.

·         Il 10 luglio 1310 fu proposta ed approvata in Mazor Consejo l’istituzione di un tribunale speciale che vigilasse sulla sicurezza interna della Repubblica. Era l’atto di nascita del Consejo dei X, che dopo alcune proroghe atte a verificarne l’effettiva utilità, venne dichiarato di stabile rielezione il 20 luglio 1335.

·         Il 25 luglio 1310 veniva ordinata la demolizione di Ca’ Tiepolo di Bajamonte in Contrada Sant’Agostin con divieto di qualunque ricostruzione. I pilastri di marmo rosa del portone d’ingresso furono donati alla chiesa di San Vio, che li adoperò per la propria porta.

·         Fu ugualmente decretata anche la demolizione di due terzi di Ca’ Querini in Contrada San Mattio a Rialto, proprietà dei congiurati Marco e Piero, salvando però la parte di Giovanni Querini, riconoscendo che egli non aveva partecipato alla congiura. Essendo però insorte difficoltà circa la determinazione esatta dei confini, la proprietà di Giovanni venne acquistata dalla Signoria e tutto l’edificio convertito a stalla e macello pubblico.

·         Nel dicembre del 1310 fu ordinato che tutti gli stemmi di Ca’ Tiepolo e di Ca’ Querini fossero scalpellati e che le casate “lealiste” dovessero mutarli. Lo stemma dei Querini che era dapprima a quartieri d’oro e rossi, fu ridotto in due parti per la larghezza, mettendo nella superiore tre stelle d’oro in campo azzurro e la inferiore tutta rossa, nella quale però i membri del casato che non parteciparono alla congiura supplicarono l’inserimento di una B bianca a significare che essi erano rimasti sempre buoni e fedeli. Lo stemma dei Tiepolo che era un castello d’argento con due torri in campo azzurro, fu cambiato con altro in cui si vedeva un corno di capra. Non solo in tutti i luoghi privati furono cambiate le insegne ma anche in sala del Mazor Consejo venne mutata l’immagine del blasone nei ritratti dei Dosi Giacomo e Lorenzo Tiepolo, così come quelli scolpiti nelle loro sepolture in chiesa di San Zanipolo.

 

La memoria.


·         Il 28 giugno 1310 fu decretato festivo il giorno di San Vito (15 giugno), con “Andata” del Dose da palazzo ducale fino alla chiesa parrocchiale di San Vio.

·         Marco Donà fu dichiarato, con tutta la sua discendenza, perpetuamente del Mazor Consejo.

·         Giustina o Lucia Rossi, la donna che aveva fatto cadere il mortaio sulla testa dell’alfiere di Bajamonte Tiepolo, fu accolta a palazzo ducale dal Dose il quale fece concessione alla donna di particolari privilegi.

·         Speciali onori furono decretati al Guardian Grando della Schola Granda de la Carità, ordinando che in campo San Luca fosse alzata un’antenna dove sventolassero assieme le insegne di quella Scuola e dell’Arte dei Depentori.

·         Al centro dell’area resa sgombra dalla demolizione di Ca’ Tiepolo in Contrada Sant’Agostin, venne collocata una colonna d’infamia.