organi costituzionali

Repubblica Serenissima

Consejo del Pregadi

o Senato

GARANZIE PROCEDURALI

 

premessa.

l'istituto della "contumacia".

la condizione di "cacciato di cappello" e di "papalista".

la segretezza e la sincerità del voto.

       il "bossolo" e la "ballotta".

       le norme riguardanti il voto.

la cognizione.

 

Premessa.

Prima di analizzare le procedure attraverso le quali il Senato approvava o respingeva una Parte, oppure eleggeva o bocciava un candidato, è necessario scendere nel dettaglio di alcune tra le più importanti garanzie procedurali le quali,  severamente e continuamente applicate, contribuirono non poco alla plurisecolare saldezza di questa, come delle altre, istituzioni politiche della Repubblica.

 

 

L’istituto della “contumacia”.

Fin dal sua fondazione e poi fino alla fine della Repubblica, tutti i membri del Senato una volta concluso il loro mandato risultavano essere immediatamente rieleggibili, essendo esclusa per questo importante organo dello Stato l'applicazione della contumacia, norma che impediva ad un qualsiasi magistrato di essere rieletto allo stesso ufficio, se non trascorso un periodo di tempo uguale alla durata del mandato che egli aveva appena concluso.

L'esonero concesso ai membri del Senato (inizialmente riconosciuto anche ai membri della Quarantia, fino a quando non divenne al Criminal), fu determinato dal fatto che, giustamente, non parve confacente ai pubblici interessi dover rinunciare a disporre di una solida componente tecnica e politica, formata appunto da autorevoli e competenti senatori, che qualora sottoposti ad allontanamento avrebbero privato la Repubblica delle preziose competenze maturate a stretto contatto con i più delicati affari di governo, rendendo difficoltosa la continuità all'azione politica.

Anche se immediatamente rieleggibili, tutti i senatori comunque scadevano ogni anno di carica per essere sottoposti alle rituali elezioni, anche se, per consuetudine, il senatore che risultava eletto una prima volta assai difficilmente non vi era rieletto, a meno che non si fosse macchiato di qualche colpa grave o conducesse una vita troppo sfarzosa che urtasse il comune senso di eguaglianza tra patrizi.

Quasi sicuramente però tale benefica esenzione contribuì in maniera non trascurabile a far sì che lentamente ma inesorabilmente il Senato si trasformasse in un feudo politico riservato alla ristretta cerchia costituita dalle grandi famiglie aristocratiche più ricche ed influenti di Venezia.

L’abbondanza di risorse finanziarie costituiva, infatti, una formidabile rampa di lancio verso il potere: in seguito all’elezione, per poter mantenere alto il livello di decoro che il prestigio della carica imponeva, il senatore doveva far ricorso esclusivamente alle proprie possibilità economiche, visto che la Repubblica, per l'espletamento della carica, non contribuiva e non contribuì mai con alcuna forma di stipendio.

Il sostanziale disinteresse dello Stato riguardo qualunque forma di sostegno pubblico per l’attività politica è stato più volte additato come un vero e proprio neo della costituzione veneziana, che da questo punto di vista concepiva il partecipare alla vita pubblica più come un dovere che come un diritto, rivelandosi tale assunto una grave violazione nei riguardi della conclamata eguaglianza che doveva esistere fra tutti i nobilomeni veneziani.

Fu l’ampiezza del patrimonio che sostituì lentamente la vera capacità del singolo e questa degenerazione, lavorando sotto traccia nei secoli, fece sì che verso la fine della sua storia la classe nobiliare di Venezia si fosse ormai solidamente stratificata in tre caste: la prima era quella detta della nobiltà senatoria, alla quale apparteneva le famiglie più ricche, le sole che potevano dirsi pronte a sostenere a lungo un proprio consanguineo eletto in Senato; la seconda era chiamata nobiltà giudiziaria e vi facevano parte quelle famiglie patrizie né ricche ma nemmeno ridotte in miseria ed i cui membri avevano come sbocco l’elezione in Quarantia al Civil novo (che poi con il giro, dava accesso automatico alla Quarantia al Civil vecio e alla Quarantia al Criminal); infine l'ultima categoria era detta nobiltà barnabota (barnaboti deriva dalla contrada di San Barnaba, zona della città dove più bassi erano gli affitti delle case popolari), costituita dai nobili poveri che partecipavano ai lavori del Mazor Consejo ma senza alcuna speranza, né disponibilità personale, di essere eletti ad alcuna carica importante, essendo del tutto privi di grossi patrimoni e quindi destinati al massimo ad incarichi marginali.

Gli effetti nefasti cui portava la stratificazione basata sul censo non erano però sfuggiti ai più, e forse è bene qui ricordare una Parte approvata verso la fine del XVIII secolo (quindi in periodo di grande decadenza dell'impegno politico) in Mazor Consejo, con cui venne introdotto il concetto di limitare al massimo in tre anni il periodo di appartenenza consecutiva al Senato. Mentre la Repubblica si avviava verso la propria misera fine, pure il patriziato veneziano ancora non cessava d'interrogarsi sulla necessità che il potere non finisse raccolto entro le mani di pochi oligarchi. Ciò testimonia come ancora fosse vivo, malgrado tutto, l'antico orientamento egualitario della maggioranza dei nobilomeni che, con incredibile coerenza, ribadiva ancora la propria fede assoluta nei principi fondamentali dello Stato.

 

La condizione di “cacciato di cappello” e di “papalista”.

Questo termine, alquanto inconsueto, era usato a Venezia per indicare coloro ai quali era momentaneamente sospeso il diritto al voto, e ricerca le sue origini nel fatto che, anticamente e prima di introdurre l'utilizzo del concolo (urna), il voto avveniva gettando le ballotte dentro un largo cappello di paglia posto ai piedi della Signoria.

Da qui, l'espressione di cacciato di cappello restò a significare l'assoluta impossibilità, per un membro di diritto, di poter partecipare al voto: fosse, indifferentemente, in occasione di elezione che per l'approvazione di una Parte.

Più propriamente nel diritto pubblico veneziano, questa espressione stava ad indicare un numero variabile di votanti che non potevano partecipare al voto risolutivo su di una determinata materia con la quale gli stessi si cacciassero di cappello perché aventi interessi personali non compatibili con l'assoluta imparzialità morale con la quale qualsiasi preferenza doveva essere espressa.

Questo severissimo principio, applicato indistintamente in tutte le assemblee politiche dello Stato, era ancora più rigorosamente perseguito in Senato, dove tutti coloro che risultavano cacciati di cappello venivano raccolti e rinchiusi dentro un'altra stanza del palazzo, dove rimanevano fino alla fine delle operazioni di voto dalle quali erano stati esclusi.

Con maggiore asprezza si applicava in Senato questa norma nel caso si dovessero dibattere materie riguardanti i rapporti tra Stato e Chiesa: allora non solo i cacciati individuati dovevano uscire, ma anche i loro parenti, figli, cognati, zii e figliastri; mentre chi ancora non fosse stato allontanato ma sapeva di vantare interessi particolari ed incompatibili, doveva pubblicamente autodenunciarsi ed uscire.

Col passare del tempo la consuetudine prese ad indicare con questo termine anche chi vantasse dei benefici ecclesiastici, finché in questo caso si passò ad utilizzare il termine di papalista, il quale a sua volta fu sovente utilizzato per indicare coloro che non potevano votare anche quando si trattava di materie non strettamente attinenti alla sfera ecclesiastica.

L’imparziale applicazione di questo principio di rigorosissima moralità pubblica faceva spesso sorgere notevoli difficoltà di ordine procedurale a chi restava in aula avendone diritto, poiché capitava spesso che venisse a mancare addirittura il numero legale per poter validamente deliberare; la seduta si considerava allora sospesa e veniva inoltrata al Mazor Consejo l’autorizzazione ad ugualmente deliberare, mentre l'argomento in discussione veniva ripreso la riunione seguente.

Infine, va notato che con la solita ferrea logica, propria del patriziato veneziano, dal Senato venivano allontanati non solo i membri aventi diritto ma, se del caso, anche il semplice segretario.

 

La segretezza e la sincerità del voto.

L'estrema importanza data dai veneziani a questo aspetto dell’esercizio della sovranità, appunto la segretezza e la sincerità del voto personale, fa ben comprendere l'energia con la quale gli organi preposti al suo controllo vigilavano per impedire appunto che sui votanti potesse essere esercitata qualsiasi forma di illecita pressione psicologica, col fine d'influenzare gli esiti delle votazioni.

Per ogni inosservanza e frode erano previste pene severissime, che andavano dalla privazione dei pubblici uffici, alla comminazione di forti multe, per arrivare sino alla prigione o al bando in qualche sperduta colonia.

 

Il “bossolo” e la “ballotta”.

Il bossolo, termine veneziano di definizione dell'urna, era un contenitore chiuso che poteva essere triplice o duplice, ma fornito in ogni caso di un'unica apertura dall'alto.

Esso era utilizzato nella versione triplice quando per la votazione in corso erano ammessi i voti de Parte (sì), i voti de Non (no) e quelli dubii o non sinceri (una forma d’incertezza di voto non però uguale nella sostanza alla moderna astensione); il bossolo era invece duplice quando la procedura ammetteva solo il voto de Parte ed il voto de non.

Durante le operazioni di voto, era il bossolo che veniva portato in giro facendolo sfilare tra i banchi dei senatori, i quali introducevano il pugno chiuso dentro il bossolo facendo cadere la ballotta nello scomparto desiderato.

Le ballotte a loro volta erano confezionate in panno di lana o stoffa, affinché nessun rumore fosse udito all’esterno nella loro caduta dentro l'urna, impedendo così a chiunque di poter dare anche in questo modo indicazioni indirette di voto. In base alle procedure utilizzate le ballotte potevano essere di colore bianco, nero oppure dorato.

 

Le norme riguardanti il voto.

Poiché, come visto, era il bossolo che veniva mandato in giro, i senatori che aspettavano al proprio seggio prima e durante il momento del voto erano obbligati ad osservare scrupolosamente alcune regole:

  • prima di introdurre la mano dentro al bossolo, il senatore la doveva alzare mostrando ai colleghi la ballotta sul palmo,

  • ogni senatore doveva votare rimanendo seduto al proprio seggio;

  • era vietata qualsiasi dichiarazione palese di voto e qualsiasi pubblicità elettorale;

  • era categoricamente vietato non votare;

Come di consueto, conclusa la votazione tutte le ballotte, distinte per colore, sotto l'attenta sorveglianza dei membri del Pien Collegio venivano versate nel concolo e ricontate dai segretari che verificavano se il numero delle ballotte fosse uguale al numero dei votanti.

 

La cognizione.

Il patriziato veneziano reputò sempre della massima importanza il fatto che tutte le Parti promulgate dal Senato, fossero sempre il frutto di un lungo e ponderato dibattito. Si cercò sempre di evitare, per quanto possibile, che la fretta o la superficialità nell’esprimere il voto dessero origine ad abusi oppure che la legge stessa non sortisse poi i risultati sperati.

Come era disposto anche per il Mazor Consejo, il sistema prevedeva che qualora una Parte fosse stata reputata fondamentale o comunque di grande interesse, essa dovesse prima di tutto essere ben compresa ed affinata dai senatori e per questo motivo era disposto che la lettura del testo avvenisse in aula almeno otto giorni prima che l'assemblea si esprimesse con il voto.

 


 

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