SESTIER DE CASTELO |
ciexa de Sant'Antonio de Castelo |
CONTRADA S. PIERO DE CASTELO |
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Cenni storici: la leggenda vuole che il campo
su cui fu costruita la chiesa di Sant’Antonio de Castelo,
fosse in origine una valle da pesca
detta “plombiola” che venne colmata nel 938. In seguito la nobile famiglia Pisani,
imparentata al tempo con il Dose Piero Orseolo I, nel 983 decise di edificarvi una
chiesetta in legno dedicata a Sant’Antonio Abate. Di certo vi è che il 29 agosto 1334 il Mazor Consejo concede a Marco Catapan
e Cristoforo Istrigo un lotto di terreno vacuo posto nell’estrema punta
orientale della città, di fronte all’isoletta di Santa Lena, affinché “l’avessero a imbonire” entro lo spazio
di tre anni, per renderlo edificabile. Nel 1336 il lavoro è completato e infatti il Piovego conferma ai due
il possesso del terreno e della palizzata da essi eretta tutto interno a
difesa dalle acque salse. Mentre nel 1343 il Catapan, con uno scambio di
proprietà, allarga ulteriormente il terreno, l’Istrigo
fa erigere una chiesetta in legno e l’offre al canonico Giotto degli Abati,
fiorentino, affinché vi fondasse una chiesa e un monastero sotto il titolo di
Sant’Antonio abate. A
sostegno dell’impresa il Procurator de San Marco Nicolò Lion (colui che
denunciò la congiura Querini-Tiepolo del 1310) e le
famiglie Pisani e Grimani, mettono
subito a disposizione un cospicuo aiuto finanziario. L’architetto G. Lanfrani è incaricato di predisporre il progetto di
costruzione del complesso. Nel 1346
il vescovo di Castello, Nicolò Contarini, conferma
il suo benestare e il giorno di Ogni
Santi dello stesso anno il vescovo di Tiro può benedire la posa della
prima pietra. Alla cerimonia è presente anche Aimone
de Montigny, Maestro
Generale dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne (Francia) e dopo pochi mesi, l’Abate di Ranversa (Piemonte), imponendo un tributo annuo di 20
fiorini, nomina primo Prior
del convento lo stesso Giotto degli Abati. Conservato all’Archivio di Stato, in un ampio
disegno della seconda metà del secolo
XV, richiesto a suo tempo per risolvere alcune dispute di confine sorte
fra il convento di San Domengo
de Castelo e alcuni privati, è
dettagliatamente riprodotta anche la chiesa gotica di Sant’Antonio de Castelo,
di cui si scorge chiaramente la planimetria impostata su tre navate, di cui
la centrale più elevata rispetto alle laterali. Oltre agli elementi
architettonici della facciata, lungo la navata laterale sinistra si notano
due grandi finestre ogivali e sotto la linea di falda la struttura si corona
di piccoli archi ciechi, gli stessi che si ripetono sotto la falda della
navata centrale, dove cinque finestrelle davano luce dall’alto. Sulla
sinistra si scorge l’abside, semicircolare, che fuoriesce dalla massa della
fabbrica e ha il suo tetto, a semicupola, più basso di quello della chiesa.
Dal fianco destro dell’abside si eleva il campanile. Fra il 1357 e il 1358 Giotto
allargava ulteriormente la proprietà del monastero, acquistando un lotto di
terreno da Marco Moro, mentre nel 1360 Cristoforo Istrigo dona ai
canonici il terreno dove è stata edificata la chiesa. L’Abate di Ranversa lo stesso anno invia quattro religiosi al
servizio del monastero di Sant’Antonio, concedendo a Giotto di dar loro
l’abito canonicale. Nel 1362
papa Urbano V accorda l’indulgenza a coloro che, visitando la chiesa,
avessero elargito un’offerta; a quel tempo Giotto aveva già impiegato nella
fabbrica della chiesa la ragguardevole cifra di 300.000 fiorini. Nel 1364
il Senato concede ai canonici
un ulteriore appezzamento di terreno adiacente al complesso conventuale, per
il momento con il solo obbligo di
circondarlo di una robusta palizzata ma poi, lo stesso anno, anche con
facoltà di poter bonificare il paluo. Nel 1366,
momento di massimo splendore per il convento, Giotto viene nominato dal
patriarca di Aquileia suo cappellano e famigliare;
nel 1368 anche il vescovo di Albano lo elegge alla medesima dignità. L’11 aprile 1381 Giotto muore e il successore designato, il canonico Ogerio Calusio, deve prima
scontrarsi con Girardo Bolliaccio,
eletto dall’antipapa Clemente VII (di Avignone). Nel 1384 l’usurpatore viene scacciato e Calusio
diviene l’unico e legittimo successore di Giotto. Nel 1408 subentra a Calusio il canonico
Bartolomeo Canali, il quale tenta, con nessun successo ed anzi dovendo alla
fine pagare una multa di 4.000 fiorini, di sottrarre questa comunità alla
tutela dell’Abbazia di Ranversa. Nel 1449 il Canali si spegne e a
sostituirlo papa Nicolò V nomina Prior Michele Ursino. Nel 1457 il convento, che gode di buona
salute finanziaria, acquista una casa nelle vicinanze, probabilmente nella
zona di Riello
dove già uno squero e alcune casette sono di proprietà dei canonici. Mentre per i bisogni della Crociata, nel 1463 con una breve papa Pio II obbliga tutte le congregazioni a versare la
metà delle loro rendite; per motivi non ancora chiariti o forse dipendenti
dall’inizio della decadenza dell’Ordine, i Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne abbandonano la chiesa e il monastero.
Non vi faranno mai più ritorno. Trascorrono gli anni finché il Dose Nicolò Tron,
venuto a conoscenza della ristrettezza di spazio che opprime la numerosa
comunità dei Canonici
Regolari del SS. Salvatore di San Salvador (Sestier de San Marco, Contrada San Salvador) nel gennaio del 1471 scrive a papa Sisto IV una ducale in cui chiede che chiesa e
convento siano loro concessi. Il novembre dello stesso anno il papa
acconsente e, da parte loro, i canonici accettano tutti i doveri dei
predecessori, compreso il pagamento all’Abbazia di Ranversa
di un tributo annuo di 5 fiorini. Nel 1475
il Prior
di San
Salvador prende ufficialmente possesso del monastero e nel 1476 papa Sisto IV conferma il
canonico Gerolamo quale Prior. Dopo tanto abbandono, gli edifici sono assai bisognosi
di restauri e nel 1480 viene
intanto dato incarico a Pietro Lombardo di ricostruire il refettorio.
Benvoluti dalla popolazione, nel 1486
i canonici ereditarono, da un certo Tedesco, tre case presso la chiesa di San Piero de Castelo e nel 1491 acquistano un ulteriore appezzamento di terreno vacuo nelle vicinanze. Proseguono intanto gli interventi di
restauro della chiesa e a partire dal 1503
si inizia ad inserire nell’originaria struttura gotica dell’edificio nuovi
elementi di gusto rinascimentale. In quest’anno viene infatti demolito il
vecchio coro in legno per sostituirlo con un barco in marmo. Nel 1506
si pone mano al rifacimento del dormitorio limitatamente al lato che guarda “da la banda de San Marco” e viene
intanto saldata una parte del conto per la rifabbrica del coro. Nel 1512
il Capitolo dei frati concede a Ettore Ottobon
di erigere un altare in chiesa, confermandone in seguito alla sua famiglia il
privilegio. Esso viene dedicato ai “Diecimila
martiri crocifissi del monte Ararat” la cui festa si tiene
solennemente il 22 giugno, con grande partecipazione di popolo. Nel 1513
il Capitolo dei frati da licenza
alla nobile famiglia Lando di poter realizzare in chiesa la propria
cappella. L’edificio però, ormai vecchio di secoli,
palesa sempre più la necessità di profondi e perciò costosi restauri. Per
sollecitare un aiuto in denaro, i canonici indirizzano al Senato una supplica, ma
già nel 1514 dalla Santa Sede viene concesso un prestito di 1.000 fiorini per
poter iniziare i lavori. Tutto il XVI secolo diventa un periodo di
costruzioni e di restauri per la chiesa e il monastero: nel 1534 si porta a finalmente compimento
il nuovo coro; nel 1540 può dirsi
terminato anche il restauro del dormitorio; nel 1541 infine si concludono i lavori per la foresteria e per i magazzeni che si affacciano sulla
laguna. Nel 1548
il nobilomo
Piero Grimani, figlio del Dose Antonio Grimani
(le cui spoglie stavano temporaneamente sepolte nella tomba di Vettor Pisani) assume
l’impegno di realizzare la nuova facciata della chiesa, il cui progetto
prevede la sua trasformazione in monumento funebre alla memoria del padre.
L’incarico viene affidato a Francesco Quattrin tajapiera. Nel 1546
i canonici inoltrano una supplica al Consejo di Diese per poter tagliare duecento tolpi da conficcare nel terreno
per realizzare una palizzata che circondi l’orto. Tale supplica sarà
rinnovata nel 1570 perché la palificata era stata rovinata dall’ormeggio di
una galea di proprietà dei Contarini e, nonostante ciò, il Magistrato alle
Acque
aveva intimato ai canonici la riparazione. Nello stesso anno, inoltre, si
conclude la rifabbrica del lato del monastero “che varda el
canal”. Continua intanto la bonifica dei terreni
in proprietà del monastero finché, nel 1581,
i canonici decidono di realizzare davanti alla chiesa e al monastero una fondamenta
e successivamente di consolidare la propaggine chiamata motta o punta de
Sant’Antonio. Nel 1588,
onde provvedere alla riparazione della cisterna nel chiostro, i canonici si
offrono di pagare quanto sarà necessario oltre ai 100 ducati offerti dalla
carità dell’allora Dose Pasquale
Cicogna. Nel 1636
i canonici inviano una supplica al Dose Francesco Erizzo al fine di
poter prendere a livello 600 ducati
per restaurare l’ala del monastero che guarda verso l’orto, distrutta da un
incendio causato, pare, da manovre militari in corso nella vicina punta de
Sant’Antonio. Nel 1714
la guarnigione veneziana a Corfù respinge eroicamente l’assedio dei Turchi.
Numerosi sono i soldati e i marinai feriti che vengono rimpatriati a Venezia,
tanto che i frati di San Giovanni di Dio (detti Fatebenefratelli) che amministrano il
vicino Ospeal de Messer Gesù Cristo chiedono che
anche il convento di Sant’Antonio de Castelo accolga una parte dei numerosi feriti. La pace
di Passarowitz, firmata nel 1718, segna però la
fine delle ostilità con i Turchi e con ciò anche la richiesta viene
accantonata. Arriva intanto il 1768 e, in virtù della Parte
approvata dal Senato il 7 settembre dello stesso anno,
assieme ad altri monasteri in città, anche questo viene dichiarato soppresso;
la chiesa affidata a un cappellano mentre i canonici fanno ritorno a San Salvador
dove il Prior
continuerà, inutilmente, a fregiarsi anche del titolo di Prior di Sant’Antonio de Castelo.
Indemaniato e rimasto vuoto, il convento è in seguito adibito agli usi più
disparati finché nel 1787, la nobildonna Luigia Pyker Farsetti
vi raccoglie settanta povere fanciulle, che vengono avviate all’arte di
filare e tessere. Caduta la Repubblica nel 1797, con la prima occupazione
francese e poi durante la prima occupazione austriaca, la chiesa continua ad
essere officiata. Nel 1806, con la
seconda occupazione francese, tutto il complesso viene trasformato in
ospedale e caserma per la Marina Militare francese. Nel 1808
viene accolto il progetto elaborato da G.B. Selva per dotare Venezia di
giardini pubblici. Nel 1810,
assieme ad altri numerosi ed importanti edifici della Contrada, tutto viene completamente demolito,
essendo risparmiato solo l’imponente arco della Cappella Lando.
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sopra la porta d’ingresso: lapide posta nel 1346 a ricordo della
posa della prima pietra: ANO DNI MCCCXLVI
I LA FE / STA DE OGNA SATI / LO TEPO DEL / ICLITO SIGNOR MIS ANDREA SADO / LO
DOXE D. VENIEXIA E DEL REVE / RENDO I XRO PARE MIS NICOLO MORE / XINI VESCOVO
D. VENEXIA FO METV / DA LA PRIMA PIERA DE QSTA BNDETA / GLIEXIA DE MIS SCO
ANTONIO DE VIENA E CHATADA LA PRIMA MESA E FO DADO LO DITO LUOGO P. LO ONESTO
RELI / GIOSO MIS. FRAF GIOTO DE LI ABATI DE FLO /
RECIA DEL ORDENE DE MIS SCO AN / TONIO DE VIENE PRIMO PRIOR E FONDADORE DEL
DITO LVOGO. SI / ADO LI NO / BELI SIGNORI MIS
LORENCIO MI / NIO E MIS XROFALO ISTRIGO E MIS ZA /
NE BECI E MIS GERARDO DE LI NEVODI / E MIS NICHOLO
MAGNO P. CHVRADORI DE LO DITO LVOGO P. LI QVALSIA
SE / P FATA ORACIO. E P. TVTI QVELI LI OV / AL A
DADO E CHE DARA DE LI SVO BE / NI P. LEVAR BENEDETA
GLIEXIA / E MIS MARCO CATAPAN E MIS VIELMO STRACAROL.
PRIMO Altare in marmo, apparteneva
alla nobile famiglia Cappello. all'altare: pala Vergine
e Gesù e i Santi Nicolò, Vincenzo e Domenico di B. de’ Pitati.
Opera commissionata da Nicolò
Cappello, Capitan General da Mar, che fu qui
sepolto. Difese Cipro dai Turchi nel 1487 e nel 1490 ricondusse Paros all’obbedienza.
SECONDO Altare in marmo,
apparteneva alla nobile famiglia Pasqualigo.
Fu eretto in memoria di Piero
Pasqualigo († 1515), uomo politico e ambasciator alla corte di
Francia. Agli inizi del ‘700 lo scrittore Vincenzo Pasqualigo lo
abbellì e lo rinnovò; alla sua morte venne qui sepolto. all'altare: Crocifisso marmoreo. TERZO Altare decorato con
molti marmi, con dorature e colonne, apparteneva alla nobile famiglia Ottobon. all'altare: dipinto Diecimila
martiri crocifissi sul monte Ararat di V. Carpaccio. Alla famiglia Ottobon
apparteneva il cardinale Piero che nel 1689 fu eletto papa col nome di Alessandro VIII. (il dipinto si
trova alle Gallerie dell’Accademia). QUARTO Altare in marmo,
apparteneva alla nobile famiglia Querini. all'altare: tavola Sposalizio di
Maria Vergine di J. Palma
il Giovane. Sostituì la tavola di J. Palma il Vecchio con lo stesso
soggetto, fortemente degradata ma ancora definita meravigliosa dai
contemporanei.
alla parete: monumento e sarcofago con le spoglie di Vettor Pisani († 1380), Capitano General da Mar, vincitore dei Genovesi nella guerra di
Chioggia. La sua statua lo raffigura in piedi con in mano il vessillo di San
Marco, sotto un baldacchino gotico (oggi a San Zanipolo). Sotto l’arca è posta la seguente
epigrafe: INCLITVS HIC VICTOR PISANAE STIRPIS
ALVMNVS / IANORVM HOSTILEM VENETVM CAPVT EQVORE CLASSEM / TIRRENO STRAVIT. HUNC PATRIA CLAVDIT. AT ILLE / EGREDITVR CLAVSAM
RESERANS BRINTAM. / MORS HEV. MAGNA VETAT TVNC CVM MARE CLASSIBUS
IMPLET. all’altar maggiore:
grande
polittico Padre Eterno, Annunciazione e Santi
(1357) detto anche “Lion” (dalla famiglia del
donatore) opera di L. Veneziano,
fu sostituito da pala di G. Angeli. Oggi alle Gallerie
dell’Accademia. alla parete: monumento al Dose Antonio Grimani,
qui sepolto assieme al figlio Domenico e al nipote Marino, entrambi
cardinali. Li ricordava una lapide posta sotto al monumento.
ALLA PARETE, DIETRO UNA GRATA gruppo scultoreo
in terracotta Deposizione di A. Mazzoni,
era considerata dai contemporanei l’opera forse la più preziosa della chiesa.
(dopo
la soppressione napoleonica fu distrutta durante la spoliazione perché considerata
di nessun valore. I pochi frammenti superstiti sono esposti al Museo Civico
di Padova).
QUARTA cappella in marmo, di
proprietà della nobile famiglia Pisani. all'altare: dipinto San Michele
Arcangelo di P. Mera detto
il Fiammingo. TERZA cappella in marmo, era
dedicata al Santissimo
Sacramento. all'altare: tavola Santa Caterina e
Santa Agnese con un Santo vescovo di P. Malombra. SECONDA cappella in marmo, era
dedicata alla Vergine
Maria, probabilmente di proprietà della nobile famiglia Grimani. all'altare: dipinto Padreterno con cherubini di M. Santacroce. PRIMA cappella di proprietà
della nobile famiglia Lando, era realizzata tutta in
pietra d’Istria. Al centro vi si trovava la statua a grandezza naturale del Dose Piero Lando († 1545) di P. da Salò e l’elaborato sigillo sepolcrale; ai lati i busti dei
suoi fratelli Giovanni e Vitale, senatori. all'altare: tavola Spirito Santo che
discende sul capo della Vergine e degli Apostoli di M. Vecellio.
L’11 aprile 1381 si spegneva frate Giotto
degli Abbati, fondatore e cuore del monastero. La
sua pietra tombale, posta al centro della sagrestia, finemente scolpita a
rilievo, lo ritraeva in figura completa, con nella mano sinistra un modello
di chiesa e nell’altra un libro chiuso. Tutto attorno sulla cornice stava
incisa la seguente iscrizione: MCCCLXXXI ADI 11 DE AVRIL
/ QUI E SEPELI FRA ZOTO DE LI ABATI DI FLORENCIA EL QVAL FO / FUNDADOR PRIMO ET GOVERNADOR DE
QUESTO MONASTRIER DEL ORDENE DE SANCTO ANTONIO DE VIENA / CUIUS ANIMA
REQUISCAT IN PAXE PREGA PER EUM AMEN
Sant’Antonio
Abate (mano
intera); Santa Croce (frammento); Diecimila
martiri crocifissi (reliquie)
San Geremia
profeta e martire (gamba
e piede) San Bartolomeo
Apostolo
(osso del braccio); San Matteo
Apostolo
(osso del braccio); Santa
Margherita vergine e martire (osso del braccio) San Pantaleone martire (osso del braccio) San Magno
vescovo e confessore (dito) San Mercurio
martire
(due denti) San Bernardo
Abate (dita) Sante Vergini compagne di Sant’Orsola (teste)
Diecimila Martiri Crocifissi
del monte Ararat. Correva l’anno 1511, quando il giorno 10
giugno giunse a Venezia, dal territorio di Vicenza e già con qualche
principio di febbre, un canonico di nome Giannandrea
da Venezia. Egli dopo aver sostato per un giorno dai confratelli di San Salvador, si portò presso questo monastero,
dove l’accolse il Prior
Franescantonio Ottobon. Qui giunto però, Giannandrea
sentì immediatamente aggravarsi il suo stato di salute e, scoperto che la
causa del male era la peste, egli si spense in tre giorni. Venuto a conoscenza del caso il Magistrato a
la Sanità,
il monastero fu immediatamente posto in quarantena sotto isolamento e ai
canonici, chiusi all’interno con pochi viveri e con il terrore che l’orribile
male avesse ormai attecchito, non seppero fare altro che chiudersi in
preghiera implorando la misericordia Divina. Alla mancanza di sostentamento
soccorsero in seguito alcuni benefattori, uno dei quali suggerì ai canonici di
ricorrere all’intercessione dei Diecimila martiri crocifissi. Mentre tutti i
frati si volsero a invocarne il patrocinio, il Prior che stava chiuso a
pregare nel suo oratorio privato, fu colto dal sonno. Nel sogno egli si vide davanti all’altare
di Sant’Antonio e mentre rinnovava le suppliche, le porte della chiesa si
aprirono e lentamente l’interno si riempì di una moltitudine di coronati che
a due a due e con la croce in spalla seguivano una persona dall’aspetto
grave. Giunto in mezzo alla chiesa, tale personaggio diede la sua benedizione
e quindi scomparve, con tutta la folla. Mentre il Prior invocava San Pietro
Apostolo, di cui correva quel giorno l’ottava, gli parve sentire una voce
uscire dall’immagine di Sant’Antonio, il quale lo rassicurò che il monastero
si trovava ora al sicuro dall’epidemia per intercessione di quei Santi. Svegliatosi con un sobbalzo, il Prior convocò
immediatamente i canonici e raccontò loro l’avvenuta visione, di cui tutti
vollero subito ringraziare il Signor Iddio ma stabilendo anche in avvenire
avrebbero celebrato solennemente il giorno 22 di giugno la festa dei Santi
Martiri. In onore dei quelli, Ettore Ottobon, nipote del Prior, nel 1517 eresse a
proprie spese il magnifico altare, impreziosito dalla pala commissionata a Vettor Carpaccio. L’anno seguente l’altare venne
consacrato da Antonio Contarini, prima canonico
regolare di San Salvador e ora Patriarca
di Venezia, che nella mensa ripose una scheggia della Santissima Croce e
alcune reliquie dei Santi martiri crocifissi. La storia e il martirio. I diecimila martiri sono menzionati due
volte nel Martirologio Romano: la prima il 18 marzo:
"A Nicomedia
i diecimila santi martiri che vennero uccisi di spada per aver confessato
Cristo" e la seconda il 22 giugno:
"Sul monte Ararat il martirio dei
diecimila santi martiri che vennero crocifissi." La prima annotazione, rintracciata in un
antico martirologio greco e tradotta dal Cardinale Sirleto,
probabilmente fa riferimento al culto di un tale numero di martiri, uccisi
all'inizio della persecuzione di Diocleziano, nel 303; che questo numero
non sia un'esagerazione è evidente anche negli scritti di Eusebio di Cesarea e Lattanzio. La seconda annotazione, invece, si fonda
su una leggenda, forse tradotta da un'originale greca da Anastasio il
Bibliotecario (morto nel 866), e dedicata a Pietro, vescovo
della Sabina. Secondo questa tradizione, gli imperatori romani Adriano (117-138) e Antonino
Pio (138-161) marciavano alla testa del loro esercito per
reprimere le rivolte dei Gadareni, della regione
dell'Eufrate.
Poiché però i nemici si scoprirono essere dieci volte più numerosi, gli
imperatori si ritirarono, ad eccezione di un gruppo di novemila soldati i
quali, incoraggiati dall'apparizione di un angelo che aveva promesso loro la
vittoria, si gettarono sui nemici, mettendoli prodigiosamente in fuga. In seguito al trionfo, i novemila e il
loro centurione
Acacio, guidati dall'angelo, si raccolsero sul
monte Ararat dove vissero pregando per trenta giorni, cibandosi della manna
caduta dal cielo. Avvertito della vittoria ad opera dei suoi militari,
Adriano invitò i suoi a compiere un sacrificio come ringraziamento agli dèi,
ma i novemila rifiutarono. Sorpreso, l'imperatore inviò allora sette
re pagani sull'Ararat per convincere i soldati ad abiurare. Opposto un
rifiuto anche a questi, i novemila vennero flagellati,
incoronati con corone di spine e infine lapidati.
Le pietre tornavano tuttavia nelle mani di chi le scagliava e questo prodigio
convertì immediatamente altri mille soldati che si unirono spontaneamente al
gruppo dei martiri. Adriano, inferocito, ordinò allora una
strage: in diecimila, vennero tutti crocifissi
o impalati,
mentre una voce divina prometteva la salvezza dell'anima a chi, morendo,
avesse pregato Dio. |
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Interno: varcandone la porta principale nei primi
decenni del XVI secolo, avremmo
visto la chiesa suddivisa in tre navate, di cui le laterali erano separate da
quella centrale da una teoria di alte colonne, sulle quali poggiavano archi a
sesto acuto. Le pareti erano tenute unite tra loro da
catene nascoste all’interno di travi lignei decorati e dipinti. Quattro ricchi altari stavano lungo la
navata laterale destra, quella confinante con il convento, e quattro sontuose
cappelle di altrettante famiglie patrizie lungo la navata sinistra. Seguendo uno schema inusitato, a metà
dell’edificio e per tutta la larghezza delle tre navate, trovava posto il
coro ligneo sopraelevato, una specie di ballatoio decorato con eleganti
parapetti intarsiati ed esili colonnine. Il coro divideva la chiesa in due
parti. Al di sotto di questa struttura trovano
posto alcuni altari, disposti tra loro alternati, in modo da permettere ai
fedeli l’accesso al presbiterio. Nel 1503,
durante gli interventi di restauro, nella struttura gotica della fabbrica
vennero inseriti nuovi elementi di gusto rinascimentale. In quest’anno fu
infatti demolito il vecchio coro in legno e affidati a Sebastiano Mariani i
lavori per sostituirlo con un banco marmoreo con parapetti ed arcate di
entrambi i fronti decorati con marmi policromi ed intarsiati, sullo stile del
Lombardo. Il Mariani morì nel 1518 e nel 1519 la vedova si impegnò a portare
a termine i lavori, incaricando
Guglielmo dei Grigi. Nel 1808
venne accolto il progetto elaborato da G.B. Selva per dotare Venezia di
giardini pubblici. Nel 1810,
assieme ad altri numerosi ed importanti edifici della Contrada, tutto fu completamente demolito. Venne risparmiato solo l’imponente arco
della Cappella Lando, attribuito al Sanmicheli, che si
può oggi vedere nei giardini pubblici di Castello, dove venne ricostruito nel
1822. |
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Facciata e portale: conservato all’Archivio di Stato, in un
disegno della seconda metà del secolo
XV, richiesto a suo tempo per risolvere alcune dispute di confine sorte
fra il convento di San Domengo
de Castelo e alcuni privati, è
dettagliatamente riprodotta anche la facciata della chiesa costruita nel 1346: affiancato da due finestre
trilobate, al centro si vede il portale d’ingresso archiacuto, sovrastato da
un rosone collocato nel frontone triangolare. Due finestre ogivali nel
medesimo stile si aprivano lungo la navata laterale sinistra, mentre cinque
più piccole, poste sulla navata centrale, davano luce dall’alto. Nel 1548
il nobilomo
Piero Grimani, figlio del Dose Antonio Grimani
(temporaneamente sepolto nella tomba di Vettor Pisani) si impegna a
realizzare la nuova facciata della chiesa, quale monumento funebre in memoria
del padre. L’incarico venne affidato a Francesco Quattrin
tajapiera.
A lavori conclusi, la facciata risulta suddivisa
in due ordini, nella parte inferiore quattro gruppi di colonne doppie a tutto
tondo e in forte rilievo, sostengono la parte superiore costituita da un
timpano triangolare sul quale si apre il grande rosone. Fra le due finestre laterali sta il grande
portale d’ingresso, concluso da una lunetta a tutto sesto dove viene
collocato il gruppo scultoreo che rappresentava Piero Grimani
inginocchiato davanti alla Vergine col Bambino e la scritta: PETRUS GRIMANI ANTONII PRINCIPIS F. PRIOR
HUNGARIE Come detto, secondo il progetto iniziale
sopra alla porta si sarebbe dovuta collocare un’arca simbolica, sovrastata
dalla statua e dallo stemma del Dose Antonio Grimani, che però,
forse per mancanza di denaro, non furono mai realizzati. |
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Monastero: conservato all’Archivio di Stato, in un
ampio disegno della seconda metà del
secolo XV, richiesto a suo tempo per risolvere alcune dispute di confine
sorte fra il convento di San Domengo
de Castelo e alcuni privati. Oltre alla
chiesa gotica di Sant’Antonio de Castelo
è riprodotto anche il monastero, addossato al lato destro della chiesa. Il
lato a ovest (opposto alla chiesa) e
quello a nord (che parte dalla zona absidale) sono ambedue costruiti in
pianoterra e primo piano: quello superiore, in muratura con finestre, poggia
su quello inferiore che si apre invece in un colonnato architravato, le cui
basi sono unite da un basso muretto. Gli edifici che compongono il monastero fanno da corona al
chiostro (l’unico) con al centro del cortile una vera da pozzo. A quasi completamento, la veduta del de’
Barbari realizzata nel 1500 offre
il dettaglio del lato ovest (addossato alla navata destra della chiesa), che
confermando la tipologia costruttiva degli altri due lati, suggerisce la
possibilità che il colonnato ruotasse tutto attorno al chiostro. Caduta la Repubblica nel 1797, con la prima occupazione
francese e poi durante la prima occupazione austriaca, il convento rimase
abbandonato; durante la seconda occupazione francese invece esso fu
trasformato nel 1806 in ospedale e
caserma della Marina Militare francese. Nel 1808
venne accolto il progetto elaborato da G.B. Selva per dotare Venezia di
giardini pubblici. Nel 1810,
assieme ad altri numerosi ed importanti edifici della Contrada, anche questo complesso fu completamente
demolito. |
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Biblioteca: Nel 1636
un disastroso incendio bruciò gran parte della biblioteca e con essa molti
degli 8.000 volumi, tra i quali manoscritti ebraici, greci, caldei, latini e
italiani, che il cardinale Domenico
Grimani aveva donato al monastero nel 1523;
collezione che era stata aumentata dal nipote Marino (la libreria era stata
lodata anche da Erasmo da Rotterdam, in una lettera del 1531). |
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Campanile: (campaniel) Sul lato sinistro, quasi all’altezza dell’abside
semicircolare della chiesa costruita nel 1346, era incorporato nel perimetro
del convento il campanile. Nel 1442,
durante un furioso temporale, il campanile subì danni gravissimi venendo
colpito da un fulmine. Nella veduta del de’ Barbari del 1500 inglobato tra il chiostro e la
chiesa, all’altezza della parte absidale, si eleva il campanile con canna
quadrata in mattoni a ordini sovrapposti, ogni lato decorato da tre lesene.
La cella campanaria si apriva su ogni lato con una trifora ed era sormontata
da una balaustra marmorea e si concludeva con un tiburio ottagonale con basso
tetto a falde. Nel 1532
il campanile si trovava in precarie condizioni statiche e dovette perciò
essere nuovamente restaurato. Fu demolito nel 1810 assieme alla chiesa e al convento.
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Bibliografia: Flaminio Corner “Venetia città nobilissima et singolare”. Stefano Curti, Venezia 1663 Flaminio Corner “Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello, tratte dalle chiese veneziane e torcellane” Stamperia del
Seminario, Padova 1758 Giambattista Albrizzi “Forestier illuminato. Intorno le cose più rare e curiose, antiche e moderne,
della città di Venezia e dell’isole circonvicine.” Giambattista Albrizzi, Venezia 1765 Andrea Da Mosto “I Dogi di Venezia. con particolare riguardo alle loro tombe.” Editore Ferd. Ongania, Venezia 1939 Cesare Zangirolami “Storia delle chiese dei monasteri delle scuole di Venezia rapinate e
distrutte da Napoleone Bonaparte.” Arti Grafiche E. Vianelli, Mestre, 1962 Giulio Lorenzetti “Venezia e il suo estuario” Edizioni Lint, Trieste 1956 Umberto Franzoi / Dina Di Stefano “Le chiese di Venezia” Azienda Autonoma
Soggiorno e Turismo, Venezia 1975 |